Buongiorno a tutti! Eccomi qui con una segnalazione, e mi scuso con Tania per averla fatta aspettare, ma l'influenza mi aveva bloccato a letto senza pc. ç__ç
Titolo: The Woden’s Day
Autore: Tania Paxia
Editore: Self-publishing
Genere: Narrativa (rosa) – Young Adult
Asin: B01BHWLVX4
Prezzo: 1,99€
N. pagine: 304
Link
Amazon
Link
Goodreads
Link blog http://www.nicholasedevelyneildiamanteguardiano.blogspot.it
Data di uscita 17 marzo 2016
Sinossi:
“Siamo amici solo il mercoledì sera e quando non siamo in pubblico”. (Woden Audrey Doolittle)
Woden è una patita della chimica e dell'elettronica, piatta come uno skateboard, occhi e capelli di un castano normale e nessun segno particolare, a parte un dente scheggiato per colpa di una caduta sull’asfalto da piccola e il vizio di tingersi le ciocche di capelli di colore diverso quando ne ha voglia. Per il resto è una normalissima e anonima diciassettenne, un po’ maschiaccio, che ogni tanto d’estate si diletta ancora a correre sui marciapiedi con lo skate. Colleziona montature di occhiali da vista stravaganti e non è il massimo della bellezza, ma a lei va bene così.
"Sono un pessimo amico del mercoledì". (Carter Fitzpatrick)
Carter (Saetta) è un pilota Nascar e il suo sogno è di correre nella Spint Cup. È il 'non ragazzo' di Felicia Hadley, la diva del liceo, ma se la spassa con tutto il gruppo delle Cheerleaders, tranne Hannah Jones che per il momento sembra resistergli. Ma lui ama le sfide, anche perché i diciassette anni arrivano una volta sola e non ricapitano più. È una celebrità a scuola da quando in prima superiore era passato dal go-kart a roba più seria. Anche l’aspetto fisico, nel crescere, si era evoluto, facendolo assomigliare più a un bel ragazzo e non più a un ranocchio. Il primo passo era stato togliere l’apparecchio e dopo, tutte quante, erano cadute nella trappola del pilota biondo con gli occhi azzurri...
Entrambi hanno un segreto: sono amici da sempre, ma non in pubblico. Si incontrano il mercoledì sera, a casa di Woden per prestare fede all'accordo stretto da bambini: il Woden's Day.
Delle domande, però, iniziano a farsi spazio nei loro pensieri...Il Woden's Day poteva continuare fino al diploma, ma poi? Cosa ne sarebbe stato della loro amicizia senza l'unica cosa che li legava?
Tra liti, tregue, battibecchi e incomprensioni, Woden con le sue 'teorie' e Carter con la sua 'pratica' cercheranno di trovare una soluzione al problema.
Biografia
Tania Paxia vive a Bibbona, un paesino nella provincia di Livorno. Frequenta la facoltà di Giurisprudenza (Magistrale) di Pisa e una delle sue grandi passioni è scrivere.
“Nicholas ed Evelyn e il Diamante Guardiano” è il suo primo romanzo. Il racconto che lo segue “Nicholas ed Evelyn e il Dragone Carbonchio” è uscito il 1 marzo. Il secondo della serie “Nicholas ed Evelyn” è in fase di scrittura. Nel frattempo, ha scritto altri libri: “La Pergamena del Tempio” un giallo su base storica edito da Europolis Editing, in ripubblicazione autonoma il 14 agosto 2015, un paranormal “Il marchio dell’Anima EVANESCENT The Rescuer of Souls #1”, un fantasy “La cacciatrice di stelle”, una commedia romantica intitolata “Sono io Taylor Jordan!” e due romanzi rosa intitolati “Ti amo già da un po’” e “Prima che arrivassi tu”.
Estratto del libro:
Middletown – Delaware
Mercoledì, 3 settembre 2008
“E che cavolo, però. Carter!” gli tolsi di mano il foglietto sul quale aveva appuntato il nome da dare al giorno in cui, d’ora in poi, ci saremmo rivisti fuori dall’orario scolastico. Adesso che lui si trasferiva da suo padre dall’altra parte della città, perché i suoi stavano divorziando, non avremmo più avuto occasione di rimanere ogni sera l’una a casa dell’altro fino a tardi a fare i compiti, a guardare la tv o a giocare ai videogiochi (corse di auto, soprattutto). E neanche tutti i pomeriggi al parco o in biblioteca oppure al cinema di mio padre.
“Wod, ridammelo”. Mi ordinò, agitando i suoi capelli di un biondo scuro dorato, un po’ lunghi a forma di scodella rovesciata, con la riga in mezzo. Me lo strappò dalle mani con una velocità impressionante. I suoi riflessi erano eccezionali, dato che era abituato a correre con i go-kart. Non c’era verso di sorprenderlo con qualche gesto improvviso. Mai. “Devo ancora modificarlo”.
Sbuffai. “Vorrei ben vedere”, con un gesto stizzito raccolsi le braccia al petto, incrociandole. “Audrey’s Day”, scossi il capo, facendomi sbattere le lunghe trecce castane sul volto e sul collo, “è orripilante”.
“Ti ho detto che lo devo modificare, testaccia dura”. Tirò fuori la lingua per farmi una smorfia accompagnata da un mugolio, più simile a un grugnito, in realtà. Sospirò, guardandomi negli occhi castani inumiditi da un leggero velo di lacrime. Era tutto il pomeriggio che piangevo. Non volevo darlo a vedere, ma senza di lui nella casa a fianco, per me sarebbe stato un incubo. Carter era il mio amico del cuore. Però quando mi chiamava testaccia dura, mi saliva l’odio, così lo spintonai, facendolo quasi cadere sul prato di fronte a casa mia. Il nostro gioco preferito, oltre alla Play era l’azzuffamento. Di solito iniziavo sempre io, maschiaccio com’ero.
Mi lanciò un’occhiataccia delle sue, con tanto di broncio e scattò verso di me, togliendomi per dispetto il berretto rosso con la visiera al contrario. Dei ciuffi di capelli sudati mi si scompigliarono sulla fronte. Non mi presi la briga di metterli in ordine, perché ero talmente arrabbiata con lui che gli mollai un pestone sul piede destro.
“Ahhhhiiiiii”, cominciò a saltellare sul posto poggiando tutto il peso sul piede sinistro, stringendosi la scarpa destra con entrambe le mani. Aveva gli occhi chiusi e una smorfia di dolore sul volto paonazzo per via della corsa che avevamo fatto dal parco giochi.
Quando lo prendevo a pugni, il più delle volte, era per dimostrargli il mio affetto, ma non quel giorno. Lo avevo colpito con rabbia, quasi volessi sfogarmi con lui per una cosa della quale non aveva colpa. Avrei dovuto prendermela con i suoi genitori, per quella stupida decisione improvvisa: con sua madre perché aveva preferito la sua carriera di paramedico alla famiglia, mentre con suo padre perché non usciva mai dalla sua officina e dal garage della scuderia per la quale lavorava. Il meno impegnato dei due era sicuramente suo padre, con il quale Carter trascorreva la maggior parte del tempo. Questo anche quando i suoi vivevano sotto lo stesso tetto.
Raccolsi il mio cappellino da terra e me lo rimisi in testa. “Così impari a fare lo scemo”.
Carter digrignò i denti, coperti dai fili metallici dell’apparecchio. “Sei diabolica, Wod”. La sua voce ancora fine e infantile era più acuta del solito. Aveva quasi le lacrime agli occhi dal dolore. Cominciò a guardarmi in cagnesco, dopo che gli avevo risposto con una smorfia trionfante.
“Hai cominciato tu, con quel nome del cavolo. Perché non lo chiamiamo Fitzpatrick’s Day?” mi strinsi nelle spalle. “Sei tu che tornerai qui ogni mercoledì, non io”, feci la voce grossa. “Sì, dovremmo chiamarlo così”.
“Non credo proprio. Ci pensiamo un altro po’ e poi decidiamo”, sbuffò. Con un movimento fluido si rimise in piedi, ma si vedeva che era ancora dolorante. “E smettila di pestarmi i piedi. Mi servono per le gare”. Mi lanciò un’occhiata fulminante con i suoi occhi di un celeste intenso, quasi blu.
“Carter, andiamo!” la voce potente, ma gentile di suo padre lo stava chiamando dall’altro lato della staccionata bianca di legno, dove poco prima aveva parcheggiato a ridosso del marciapiede l’auto di servizio con scritto sulla fiancata ‘Officina Fitzpatrick’, per caricare nel bagagliaio gli ultimi scatoloni.
E così era arrivato il momento dei saluti.
Osservai il signor Fitzpatrick mentre gli faceva segno di raggiungerlo: indossava la tuta da lavoro grigia coperta da macchie d’olio e grasso di motore. Doveva essere venuto direttamente dalla sua officina solo per prendere Carter e le sue cose. Aveva il volto tirato in un’espressione stanca e arcigna, con la fronte corrugata coperta da qualche ciuffo sudaticcio di capelli di un biondo cenere scuro, anneriti dallo sporco.
“Devo andare”, a Carter tremò il labbro inferiore per il pianto in grande stile che era riuscito a trattenere dopo il pestone sul piede.
Annuii. Di solito ci salutavamo battendo un pugno contro l’altro, oppure con una pacca sulla schiena. Quando eravamo più piccoli ci abbracciavamo anche, però. E quella era proprio l’occasione da abbraccio. Quindi, dopo averlo guardato in cagnesco, con gli occhi appannati dalle lacrime, mi lanciai per abbracciarlo forte. In un primo momento rimase fermo, quasi sorpreso, ma poi anche lui dovette cedere e stringermi con le sue braccia esili. “Sarai sempre la mia migliore amica, Woden”, mi sussurrò all’orecchio.
“Anche tu il mio”, lo dissi con un soffio di fiato, con una vocina dolce, rotta dalla tristezza. Mi schiarii la gola con un colpo di tosse e mi discostai, prendendo le distanze.
Carter aveva il broncio, con le labbra strette e protratte in fuori. Prese un gran respiro, fissandomi negli occhi e poi, all’improvviso, si impettì, baldanzoso, ignorando del tutto gli sbuffi di suo padre. “Io Carter Fitzpatrick, prometto di incontrare la mia amica Woden Audrey Doolittle, ogni mercoledì sera. Giuro solennemente di rispettare questo accordo, anche se mi trovassi in punto di morte, rapito dagli alieni, trasformato in un vampiro, in uno zombie…”
“Carter”, cercai di fermarlo, perché quando incominciava a parlare – a dire fesserie – non la finiva più.
“O alle prese con una gara di go-kart…” continuò, senza darmi retta.
Sbuffai. “Carter”, lo richiamai di nuovo.
“O con la febbre…” non c’era verso. Quindi lo presi per le spalle e cominciai a scuoterlo.
“Carter, ho capito”, gli urlai. Tossicchiai, per poi calmarmi. “Continua”.
Mi fissò per un attimo, sbattendo le ciglia contrariato. “Dicevo”, sospirò. “Che giuro di incontrarti ogni mercoledì sera”.
Dopodiché raschiai la gola e sputai la saliva sulla mano e gliela porsi, affinché suggellassimo l’accordo. Carter contrasse il volto in un’espressione schifata, con la bocca tutta storta, pronta a pronunciare un sonoro “Bleah”. Ma alla fine fece spallucce e scaracchiò sulla mano, o meglio sbavò sulla mano con una quantità industriale di saliva, e mi strinse la mano ancora con le labbra contratte per il ribrezzo. Io gli offrii un gran sorriso di rimando.
“Beh”, si strofinò ben bene la mano sui pantaloni che gli arrivavano fino al ginocchio. “Almeno non hai proposto un patto di sangue”, sghignazzò con la sua risatina intermittente, che finiva con un grugnito.
“Carter, ultima chiamata! Tra dieci secondi me ne vado. Dieci…” suo padre, in effetti, aveva avuto sin troppa pazienza.
Carter abbassò lo sguardo, rattristato anche lui, come me. Perché sapeva che niente sarebbe stato come prima, anche se avremmo continuato a vederci comunque a scuola. Ma non sarebbe stata la stessa cosa.
“Allora ci si vede, Wod”, fece qualche passo indietro, senza perdere il contatto con i miei occhi.
“Ci si vede, Saetta”. Gli piaceva un sacco quando lo chiamavo con il soprannome che si era dato da solo. Come avevo previsto, riuscii a strappargli uno dei suoi sorrisi metallici. Poi si voltò e cominciò a correre tagliando per il vialetto, per poi uscire dal cancello in legno.
Presi un gran respiro dopo averlo visto entrare in auto. Il signor Fitzpatrick agitò la mano verso di me per salutarmi e io feci lo stesso, dopo averla pulita sulla maglietta. Fu in quel preciso istante, che capii davvero che Carter mi sarebbe mancato, più di quanto avessi immaginato. E forse anche di più.